Fosca Salvi è una progettista con un background in Comunicazioni Visive e Multimediali. Si occupa di progetti a cavallo tra il digitale e l’analogico, tra social media e formazione da Idlab Studio e cura Lapis, la Social TV della Scuola Superiore d’Arte Applicata di Milano.
1. INTERACTION DESIGN FOR DUMMIES Sei una interaction designer: ti occupi, cioè, delle interazioni uomo-macchina. Dobbiamo immaginarti a caccia di androidi come Harrison Ford in Blade Runner? Direi che il mio lavoro non è esattamente lo stesso dell’agente Deckard, ma se ne vedono comunque di tutti i colori. L’interaction designer si occupa di progettare le interazioni tra un utente (l’umano) e un’interfaccia (la macchina). Questa interfaccia può avere forme e supporti diversi: ho progettato macchine del caffè con schermi 128×64 pixel, macchinari medici di altissima precisione, applicazioni per smartphone che controllavano elettrodomestici e una miriade di siti web. Negli anni il mio lavoro è cambiato molto, da “pixel-pusher” – come definiva i designer un mio collega olandese – sono diventata sempre di più la coordinatrice di progetti a cui lavorano altri “pixel-pusher”.
2. (VIDEO) CONTENT IS KING Tra IG TV, Stories, TikTok, dirette streaming e da poco anche i Reels, da alcuni anni i contenuti video sono diventati i veri protagonisti dei social. Quali cambiamenti o evoluzioni ha portato il lockdown nell’utilizzo delle varie piattaforme? Credo che il cambiamento principale lo si trovi nell’attitudine delle persone ad utilizzare queste piattaforme. Prima del lockdown si facevano una o due videoconferenze alla settimana, tutto il resto erano telefonate “normali” o incontri di persona. Ora se non si fa una chiamata con almeno altre due persone presenti in simultanea ci sembra di non star producendo abbastanza. Durante il periodo di quarantena c’è stato sicuramente un picco di entusiasmo nella fruizione di contenuti video (sia in videocall che in streaming), passavamo il nostro tempo davanti al computer 24 ore su 24. Poi pian piano le persone hanno risentito un po’ di questa sovraesposizione e hanno cercato di ridurre e spendere meglio il tempo passato davanti allo schermo, dedicandosi solo ad attività necessarie o veramente interessanti. Quello che ci è rimasto di questo periodo è però di grande valore: abbiamo capito che non è strettamente necessario recarsi sul luogo di lavoro per lavorare; la formazione ha subito un cambiamento drastico – secondo me in meglio – aprendosi a una moltitudine di nuove possibilità e siamo diventati tutti estremamente puntuali agli appuntamenti 🙂
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3. DO IT YOURSELF Curi Lapis, la Social Tv di SUPER. Che consiglio daresti a chi vuole cimentarsi nella sua prima diretta streaming? Verificare di avere banda! Scherzi a parte, la diretta streaming è un mezzo velocissimo e semplicissimo per condividere ciò che si sta facendo. Se il contenuto è buono, l’unica cosa che a cui si deve prestare attenzione sono i mezzi tecnici a disposizione. È importante avere una buona connessione internet, cavalletto, microfono, una buona illuminazione, un’inquadratura che permetta di vedere in modo chiaro ciò che si sta facendo. Durante il lockdown abbiamo tutti fatto il pieno di lezioni di yoga e di fitness su YouTube: ecco, queste sono proprio l’esempio perfetto, qualità e tecnica altissime! Con Lapis non abbiamo inventato un metodo inedito di fare lezione, ma abbiamo applicato alla pittura e al disegno metodi già rodati in altre discipline. La parte più difficile, nel nostro caso, era il coordinamento dei docenti che, ognuno da casa propria e ognuno con mezzi diversi, doveva trasmettere online i propri saperi mantenendo una una buona qualità del contenuto video.
Il corso Super Social TV si terrà a marzo 2021, in modalità blended con didattica online e con un workshop a Milano, da SUPER, da giovedì 18 a domenica 21. ▶ Scopri di più
In che modo può il design generare sviluppo locale e creare nuove economie attraverso l’arte, la cultura e la creatività? Quali politiche e buone prassi dovrebbero adottare le amministrazioni cittadine o i governi nazionali per favorire tali processi? A queste domande risponde Anna Mignosa, docente del modulo Design per le Industrie Culturali e Creative.
La tua ricerca si concentra sull’economia della cultura: di cosa si tratta e come ti sei avvicinata a questi temi? Cultura ed economia sono stati considerati a lungo come una “strana coppia”, dove l’economia veniva vista come una minaccia per la cultura. In realtà l’economia può offrire un approccio utile a sostenere il settore culturale utile per sostenerlo. L’economia della cultura, in particolare, potrebbe aiutare a risolvere alcuni dei problemi del settore garantendone la sopravvivenza e lo sviluppo.
Quello che è considerato il primo testo di economia della cultura, Performing arts: the economic dilemma di W.J. Baumol e W.G. Bowen, fornisce la giustificazione teorica per il supporto pubblico alla cultura. La disciplina si è sviluppata sia nell’approccio usato che per quanto riguarda i temi e i settori analizzati: performing arts, patrimonio culturale, mercato dell’arte, industrie culturali e creative, internet, digitalizzazione, comparsa di nuovi intermediari, ruolo del copyright, riduzione del finanziamento pubblico per la cultura, ri-organizzazione delle politiche culturali, nuovi modelli di business, turismo culturale, rapporto fra patrimonio culturale, creatività e sviluppo, città creative, moda, economia dell’artigianato, nuovi modelli di governance della cultura… Questa evoluzione dell’economia della cultura dimostra la sua capacità di seguire da vicino i cambiamenti della società e il tentativo di fornirne una lettura che possa migliorare “lo stato dell’arte”.
Mi sono avvicinata a questa disciplina grazie a un incontro col prof. Alan Peacock, a cui è seguita la collaborazione a una ricerca sulla gestione del patrimonio culturale siciliano che mi ha poi portata a fare un dottorato in Economia della Cultura a Rotterdam, con una tesi sulla gestione del patrimonio in Sicilia e Scozia. Da qui la mia attenzione si è concentrata sull’economia del patrimonio culturale ponendo particolare attenzione alle politiche culturali. Adesso divido la mia attività di insegnamento e di ricerca fra l’Italia e l’Olanda, occupandomi principalmente di turismo culturale, del rapporto fra patrimonio culturale, creatività e sviluppo, dell’economia dell’artigianato e di nuovi modelli di governance della cultura.
Qual è il rapporto tra innovazione sociale, economia della cultura e design?
C’è una crescente attenzione sul ruolo sociale del design e sugli effetti che questo può avere per l’innovazione sociale. Si tratta di un fenomeno che ha coinvolto soprattutto gli addetti ai lavori: designer, architetti, urban planner, social innovator. L’economia della cultura può fornire gli strumenti per un’analisi critica del rapporto esistente fra innovazione sociale e design, e quindi identificare best practice che potrebbero essere incluse nelle politiche di sviluppo di città, regioni, nazioni.
Ti dividi tra l’Italia e l’Olanda: quali sono le sostanziali differenze nell’applicazione dell’economia della cultura nei due paesi?
Qualche anno fa una mia studentessa fece una tesi che cercava di verificare se e quanto l’economia della cultura trovasse applicazione nella pratica. Il risultato delle sue ricerche era alquanto scoraggiante perché sembrava rilevare una scarsa applicazione della disciplina nella gestione della cultura a livello internazionale. Comunque, in generale, in Olanda c’è una maggiore attenzione ai temi economici nella gestione della cultura. L’idea di accountability – ossia la responsabilità nei confronti di una gestione efficace delle risorse pubbliche destinate alla cultura – è sicuramente più sviluppata di quanto non accada in Italia, dove purtroppo l’approccio economico è ancora guardato con sospetto, nonostante la diffusa consapevolezza dell’importanza del nostro patrimonio culturale. Prevale ancora l’idea che l’economia sia una minaccia per la cultura e non uno strumento per supportarla e migliorarne lo stato. Anche il dibattito sulle industrie culturali e creative resta nel nostro paese indietro rispetto a quanto sta accadendo nella maggior parte degli altri paesi –europei e non.
Design per le Industrie Culturali e Creative è il corso che terrai a Rotterdam a gennaio 2020 per il Master Relational Design. Puoi darci qualche anticipazione?
Vorrei mostrare agli studenti che esistono una miriade di opportunità di valorizzazione della cultura, in senso molto ampio ma con una forte attenzione alla sua relazione con la comunità locale e con i temi che oggi sono sempre più alla ribalta in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU. La cultura è – o può diventare – uno strumento fondamentale di crescita sociale ed economica: bisogna essere creativi abbastanza per identificare i modelli, gli strumenti e le politiche che possono rendere questo possibile trasformando idee in pratiche di sviluppo sociale, culturale ed economico.
Il corso Design per le Industrie Culturali e Creative si terrà a gennaio 2020, con un workshop a Rotterdam da giovedì 9 a sabato 11. ▶ Scopri di più
Adele Giacoia è nata nel cuore della Magna Grecia e cresciuta in un paese che leggenda vuole essere stato fondato dal padre di Ulisse. Ha studiato Lettere a Roma, dove ha vissuto per quasi 10 anni per poi dividersi tra Milano, Trieste, Genova, lavorando in ambiti didattici, storico-artistici e museali. In mezzo a tutto questo peregrinare, Adele è stata anche una studentessa del Master Relational Design.
Cosa ti ha spinto a intraprendere questo percorso? La prospettiva di un viaggio, una sorta di moderno grand tour alla scoperta del mondo del design e della comunicazione, rappresentava un’occasione di esplorazione e sperimentazione.
Cosa hai fatto dopo la conclusione del master e in che modo Relational Design ti ha ispirata o aiutata nei tuoi progetti? Il master mi ha aiutata ad affrontare la progettazione in modo modulare e scalabile, sviluppando strategie ad hoc per ogni tipo di situazione, anche le più assurde.
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze.”
Ho incontrato esseri mitologici con un solo occhio, ma ipertecnologico; con 999 teste, con corpi composti da quattro diversi elementi, sirene dai verdi crini e dall’anglofona favella, greggi di capre scolarizzate, elegantissime arpie dagli affilati artigli digitali, divinità social, asini alati, mostri sottomarini musealizzati, pazienti tessitrici di trame utopiche, sfingi dagli infiniti enigmi, splendidi draghi e cavalieri imbranati, intrepidi lanciatori di dadi, affascinanti affabulatori, curiosi esploratori e coraggiosi museomixer.
Hai svolto il tirocinio del master al Museo del Mare di Genova: di cosa ti sei occupata? Non il responso dell’Oracolo di Delfi, ma la Fondazione Fitzcarraldo e MeltigPro mi hanno destinata a Genova, al Mu.MA – Istituzione dei Musei del Mare e delle Migrazioni, per sviluppare un’azione pilota di Audience Development condotta all’interno del progetto europeoConnect – Connecting audiences // Knowledge in Audience Development. Grazie al preziosissimo supporto di Giovanna Rocchi mi sono occupata dell’ideazione, analisi, progettazione, organizzazione, sviluppo, grafica e comunicazione di due progetti: uno di didattica laboratoriale, Postcard Kit, mirato ad avvicinare le scolaresche alla conoscenza dei fenomeni migratori, osservati da un punto di vista storico e approcciati in una modalità pratica e ludica; e un altro più articolato e complesso, sPASSI col Mu.MA?, che riguarda tutte le quattro sedi (Galata – Museo del Mare, Lanterna, Museo Navale di Pegli e Commenda) dell’Istituzione in un’ottica di riqualificazione e rafforzamento dei legami territoriali.
sPASSI col Mu.MA? è diventato anche il tuo progetto di tesi: quali sono i vantaggi del Service Design per i musei? sPASSI col Mu.MA? nasce dalla convinzione che un museo possa essere un elemento fondamentale per la vita culturale della città e che in qualità di vero e proprio organismo, possa permeare e, al tempo stesso, farsi permeare dal territorio. Il progetto vuole porre il Mu.MA in una condizione di dialogo con la comunità. Nello specifico, si tratta di un percorso a tappe alla scoperta delle quattro sedi dell’Istituzione: una serie di passeggiate durante le quali, grazie anche all’intervento di ospiti speciali, la storia della città e quella del patrimonio conservato nei musei si fondono per dare vita a narrazioni inedite. L’obiettivo è quello di migliorare, stimolare e accrescere la partecipazione cittadina e, perché no, anche le relazioni tra i cittadini. I consigli di Vincenzo Di Maria e Claudia Busetto, i miei relatori, sono stati fondamentali per ampliare la mia prospettiva e progettare l’esperienza di un servizio tenendo conto dei comportamenti, delle necessità e delle preferenze degli utenti. Il Service Design può sicuramente essere utile per strutturare un’offerta tesa a migliorare la fruizione museale, rendere più accessibile il patrimonio, più chiari i contenuti, più semplici i passaggi e più piacevoli le visite.
Come descriveresti Relational Design? Un acceleratore di particelle. Il suo scopo principale è farti acquisire la massima energia possibile, in modo che nell’urto con i bersagli reali una parte di essa si trasformi in nuove particelle dotate di massa – critica: una soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un mutamento qualitativo.
From student, to intern, to founder of an independent publishing house: the last time with spoke with Nuphap, three years ago, he was a young designer who had just moved to Italy from Thailand to start a new adventure. He has accomplished many things since then. Now he has a very clear idea of what a contemporary designer needs to succeed in today’s world.
A lot of things have happened since you graduated: you founded your own publishing house, you started working at IdLab… tell us all about it! When I was a Relational Design student, my initial thesis idea was to do a research about the publishing industry – specifically about how modern technology and connectivity have changed its operating and business model. From that point on it started to get more serious and – thanks to my thesis advisor Stefano Mirti and my thesis partner Silvia Lanfranchi – we ended up setting in motion a fully functioning publishing house that we named The New Publishing. The first thing we published and sold was one title called Visual Poetry. This publishing house became kind of the embodiment of our thesis research and findings, and we continued to work on it afterwards. We got lucky enough to get the chance to exhibit our works in different places and even got an award! We currently have two published titles (a bit slow, I know, but we still keep going!) and more titles in the works.
At the same time I also got a chance to do an internship at IdLab, working as a visual designer on various projects (communication, social media, education). To be honest, it was quite intense since I decided to do this internship while I was still studying for the master, but I think that this was also the beauty of it: you have to learn how to manage your time and energy (and, of course, get some rest!). I eventually got offered a full-time position and I’m still working here as we speak.
What is “Relational Design” to you? And in what ways do you think the master has helped you achieve your goals and/or has changed your approach to design? I think Relational Design is more like an attitude, a mindset, a discipline to help us work and thrive in this present world where things are fast, more connected, constantly changing and unpredictable. How could we adapt to this? How should we manage our focus and energy? How can we make the best use of new media? How can we collaborate and work together with other people in these situations? How to connect/reconnect tradition to innovation? How to be (more) curious and asks questions? Relational Design doesn’t simply give you an answer to these questions, instead it sets up an actual work situation were we can train and improve ourselves so that we can better manage our projects in the future. And this is, I think, what I got out the most from the master: it made me see the world that we are living in now (especially the world of work) more clearly, and equipped me with experience and tools to handle it better.
Share some memories with us: what was your favourite course or activity experienced during the master? I would say my favorite course is Code and Creativity with Marcel Bilurbina. I guess I’ve always had an interest in code and how it could be applied to the world of visuals. But my favorite moment was definitely Milanogram, an experimental workshop where we had to walk for three days around Milan, making small videoclips. We would set up camps and sit around campfires, go to new places and meet a lot of people. That was memorable!
What are your plans for the near future now that you’re moving back to Thailand? I plan to work on several new projects that I got offered in Thailand – mostly communication design projects. Nonetheless, I will keep working on The New Publishing and see how it can be improved by the new production force that I will try to rediscover once I get back Thailand.
«Dopo la laurea in Architettura all’Università di Trieste, mi sono ritrovata a non saper bene da che parte andare, cosa fare e da dove cominciare. Ho lavorato per un periodo in uno studio di architettura che ho scoperto starmi un po’ strettoHo sempre trovato affascinante osservare come le persone interagiscono, come si intrecciano, come si legano; e per quanto siano temi che interessano la sfera “architettura”, spesso non vengono presi in considerazione da chi lavora in questo settore. Per questo ho cominciato a guardarmi attorno e cercare un’altra strada, provando a crearne una mia. Sono una persona metodica e razionale, ma con una vena creativa che ogni tanto ha il sopravvento, e la voglia continua di scoprire cose nuove.»
Come ti sei avvicinata al master e perché hai deciso di intraprendere questo percorso? Sorrido sempre quando mi fanno questa domanda, perché in realtà è successo totalmente per caso, mentre cercavo su internet cosa fare della mia vita. Avevo scelto delle parole chiave per individuare dei possibili percorsi di studio (glocal, comunicazione, comunità…) e uno dei primi risultati è stato proprio il Master Relational Design. L’ho interpretato come un segno e nel giro di qualche giorno mi sono iscritta. Mi stimolava molto l’idea di un percorso itinerante: diverse città, diversi docenti e diversi argomenti. Credo che sviluppare conoscenze in vari settori oggi sia di fondamentale importanza perché permette di approcciarsi ad altri professionisti (e non) con maggiore consapevolezza, avendo una visuale e un campo d’azione più ampi.
Grazie al programma Erasmus+ hai avuto la possibilità di svolgere all’estero il tirocinio del master. Cosa ha significato per te questa esperienza? Tanto. Sicuramente.
Avevo già vissuto un’esperienza Erasmus, a Valencia durante la triennale, ma questa volta è stato totalmente diverso, innanzitutto perché è stata un’esperienza lavorativa… e poi perché (forse) sono più matura rispetto a quattro anni fa. Il traineeship in Slovenia ha significato molto per vari motivi. A livello personale sentivo il bisogno di mettermi alla prova, nel dover parlare un’altra lingua e nel dovermi confrontare con persone nuove e una realtà diversa da quella a cui ero abituata, nonostante fossi comunque vicino a casa. A livello lavorativo è stato molto costruttivo: da PiNA, l’organizzazione non governativa che mi ha ospitata, spesso non sembra esserci una scala gerarchica, quindi fin da subito mi sono stati affidati responsabilità e progetti (per quanto piccoli) da seguire quasi in toto. Questo mi ha aiutata a spingermi oltre ai miei limiti… proprio quello che cercavo. In più ho conosciuto persone fantastiche che mi hanno fatta crescere, dei mentors che non si sono limitati ad essere delle figure “burocratiche” come da contratto, ma hanno realmente voluto regalarmi del tempo e condividere con me le loro esperienze, dandomi delle preziose lezioni di vita che nel tempo ho fatto mie.
Uno dei progetti a cui ho collaborato è Narišimo Obalo – Drawing the Coast, un intervento di cittadinanza attiva e di gestione partecipativa del territorio. Abbiamo iniziato all’alba stendendo lungo il percorso 2 km di carta bianca e abbiamo finito alle 9 di sera raccogliendo 750 mt di disegni realizzati da bambini e persone di ogni età. L’evento ha permesso, attraverso la scrittura e il disegno, di progettare il futuro della strada costiera cha va da Capodistria a Isola.
Consiglieresti l’Erasmus+ Traineeship ai futuri studenti? Assolutamente sì, indipendentemente dall’indole o dal carattere credo sia un’esperienza fondamentale per allargare i propri orizzonti, riuscire a vedere le cose da diversi punti di vista e costruirsi un bagaglio di competenze ad ampio spettro. Un’esperienza Erasmus insegna ad adattarsi alle diverse situazioni, ad essere resilienti in questo mondo incasinato, soggetto a cambiamenti repentini in cui a volte possiamo sentirci persi. Quindi sì, lo consiglio, anche perché non capita tutti i giorni di poter andare all’estero ricevendo una borsa di studio, una sorta di piccolo “aiuto da casa”.
Ora che sei quasi al termine del percorso, cosa ti ha lasciato il master? E come ti ha ispirata per i tuo progetti? Ha aumentato in me la voglia di scoprire cose nuove, sempre e comunque, di non fermarmi nella zona di comfort in cui si sta comodi ma si è statici, di provare sempre a vedere cosa c’è oltre. Un po’ come quando durante il corso di Design Narrativo abbiamo oltrepassato la recinzione attorno a Isola Bella scoprendo che sapeva essere davvero ‘bella’!
Quest’anno è stato una continua scoperta, il modo di porsi dei docenti e i temi su cui abbiamo lavorato personalmente mi hanno dato molto. A prescindere dal non indifferente network che ti puoi creare, ho avuto la possibilità di vedere dall’interno il funzionamento di realtà molto conosciute come Internazionale, ma anche come sono nate, i valori e la forza rivitalizzante di altre più piccole, come Suq. magazine.
Che progetti hai per il futuro? Attualmente sto continuando a lavorare da PiNA, principalmente come graphic designer. Quando lo scorso gennaio mi è stato chiesto se volessi rimanere quasi non ci credevo! In più sto sviluppando un progetto assieme ad altri ragazzi per creare una Civic Factory a Trieste, uno spazio in cui generare cultura, un luogo di aggregazione aperto a tutti per creare, sperimentare ed essere attivi! E siccome sono argomenti pertinenti al master, ho deciso di sviluppare parte di questo progetto come tesi, sotto la supervisione di Andrea Paoletti, andando a ricercare delle possibili strategie per attivare uno spazio del genere in una città come Trieste.
Silvio Donadio ha lavorato per anni nella pubblica amministrazione ed è stato Assessore alla Cultura di Grottole; Andrea Paoletti è un architetto originario di Biella che ha deciso di trasferirsi a Matera, dove ha fondato l’incubatore, coworking e coliving Casa Netural.
Entrambi sono tra i fondatori del progetto Wonder Grottole, che ha portato alla revitalizzazone del piccolo borgo lucano e che sarà al centro di Open Rural Platform, il primo modulo della nuova edizione del Master Relational Design, in partenza il 1° ottobre 2019. Abbiamo discusso con loro di turismo sostenibile e di valorizzazione del territorio.
Lo spopolamento dei piccoli borghi del sud Italia, dovuto in parte a un turismo “mordi e fuggi” e spersonalizzato, può essere arginato attraverso modelli innovativi di fruizione del territorio: quali sono gli strumenti per farlo? (Andrea) Penso che il turismo non possa essere la soluzione allo spopolamento dei piccoli borghi, ma può, invece, generare delle opportunità per chi vive localmente e ha voglia di mettersi in gioco proponendo dei servizi e prodotti a dimensione “umana”. Il design è lo strumento giusto per realizzare servizi e prodotti, la “relazione” deve essere il risultato di questo processo. Un rapporto che non termina con la visita ma si alimenta nel tempo.
(Silvio) Wonder Grottole è un progetto che mira proprio a questo: costruire un turismo responsabile nei confronti del territorio, affinché chi arriva non sia un turista qualsiasi ma faccia parte di un processo di riattivazione della comunità. Chi viene a Grottole lascia qui un pezzo del suo sapere a disposizione dei grottolesi e porta via con sé un pezzo del borgo.
Italian Sabbatical è il risultato di un progetto a lungo termine. Raccontateci le varie tappe di questo percorso. (Andrea) Italian Sabbatical è il risultato di un processo cominciato nel 2017, Anno dei Borghi Italiani: Airbnb aveva lanciato la piattaforma www.italianvillages.byairbnb.com e ci è sembrato il momento giusto per presentare la nostra idea di riabitare il centro storico di Grottole attraverso il design immateriale. L’idea è piaciuta molto e, grazie alla sua forte componente comunitaria, ci ha permesso di vincere il grant Community Tourism Programme. Abbiamo immaginato di creare una sorta di “banca del tempo”, un sistema in cui volontari da tutto il mondo potessero venire ad aiutarci. Così, insieme al reparto PR e Marketing di Airbnb, abbiamo disegnato il progetto Italian Sabbatical, per dare a 5 volontari l’opportunità di supportare la nostra Impresa Sociale a Grottole. (Silvio) Nelle prime 24 ore dal lancio del concorso avevamo già ricevuto 45.000 richieste di adesione. E a conclusione della call le persone che hanno chiesto di venire a Grottole sono state ben 285.000! Questo ha fatto sì che Italian Sabbatical ricevesse molta attenzione a livello mediatico. Per coordinare il progetto è stata selezionata Giudita Melis, ex studentessa del Master Relational Design, che ha lavorato a fianco di Giorgia Bertoglio di Airbnb. I 5 volontari selezionati – Anne, filippino-australiana; Remo, abruzzese; Helena, canadese; Darrel da New York e Pablo da Buenos Aires – sono arrivati a Grottole il 5 giugno 2019 e ne sono stati “cittadini temporanei” per 3 mesi. Hanno messo a disposizione il proprio tempo e i propri saperi per far sì che Grottole potesse diventare giorno dopo giorno un paese più attivo.
[Foto: courtesy of Italian Sabbatical / Airbnb]
Dopo una festa di comunità per accogliere i nuovi arrivati, i 5 sabbaticals si sono adoperati per svolgere le attività da noi proposte: apicoltura, creazione di un orto urbano, pulizia di un’area verde abbandonata, corso di cucina e corso d’italiano. I volontari hanno anche messo su delle loro idee, istituendo un corso di inglese per i commercianti locali e un “English Monday” coi giovani grottolesi, realizzando un percorso segnaletico nel centro storico e uno diretto al belvedere locale, creando contenuti multimediali in inglese e spagnolo sui monumenti di Grottole e organizzando una gita di comunità.
Ma la cosa più importante è che in questi 3 mesi hanno instaurato rapporti umani profondi con i grottolesi! Adesso in tantissimi – in Italia e all’estero – conoscono Wonder Grottole.
Ci tengo molto a sottolineare l’impegno di Airbnb nel mettere a disposizione dell’iniziativa tutte le sue risorse umane: è stato davvero bello vedere una multinazionale lavorare alla pari al fianco di un’impresa sociale.
In che modo Grottole è cambiata o sta cambiando agli occhi di un “insider” e di chi, invece, ha deciso di diventarne un abitante e di investire sul piccolo borgo lucano? (Silvio) Sicuramente Grottole oggi è una comunità più sensibile al turismo ed ha sviluppato una visione più ottimistica riguardo al proprio futuro. Per chi invece arriva, Grottole è una comunità accogliente e vivace, in cui si trovano tutti i servizi essenziali per vivere bene. Sicuramente la vicinanza a Matera, Capitale della Cultura 2019, ha influito in parte su questo. (Andrea) Con Italian Sabbatical c’è stato un grande lavoro di posizionamento. Wonder Grottole per chi viene da fuori è diventato una sorta di “state of mind” della vita nel sud Italia, nella campagna rurale, nel caldo intenso, tra la gente accogliente e sorridente. Un’immagine chiara che diventa oggetto del desiderio. Chi vive il borgo dal di dentro ha preso maggior consapevolezza che Grottole esiste e che ogni singolo abitante può donarle un’identità, così da crearne una collettiva e virtuosa.
Il corso Open Rural Platform – primo modulo della nuova edizione del Master Relational Design – si svolge proprio a Grottole: di cosa si tratta? Andrea, puoi darci qualche anticipazione? Il corso di quest’anno segue quanto già sviluppato nell’edizione precedente: si parla di ruralità, di mappatura, di esplorazione e di turismo esperienziale e comunitario. Lo scorso anno il modulo era incentrato sul centro storico, quest’anno invece lavoreremo sulla campagna, sul territorio rurale che circonda il borgo. Oggi si commette spesso l’errore di lavorare sul recupero delle case trascurando il paesaggio. È necessario invece tornare al vecchio equilibrio tra borgo e campagna, così da creare le basi della sostenibilità di questo sistema. Esploreremo quindi il territorio, capiremo come è composto l’agro, visiteremo le aziende agricole e lavoreremo a una mappatura affinché attraverso il design relazionale (online e offline) si possano creare nuove opportunità per molti paesi in situazioni di spopolamento come Grottole.
Il modulo Open Rural Platform si terrà ad ottobre 2019 in collaborazione con Airbnb, Netural Coop e Wonder Grottole. → SCOPRI DI PIÙ
Multitasker, versatile e amante della comunicazione, proprio come il Master Relational Design: Aurora Rapalino è CEO dello studio di interaction designIdLab, socia di RITARITA – brand di moda indipendente made in Milano, e docente del corso Content Design e Strategy, in programma a marzo 2020 in collaborazione con Internazionale.
Hai visto nascere il master e lo segui sin dalla sua prima edizione: cos’è per te Relational Design? Relational Design è un viaggio.
Ho visto studenti cambiare profondamente durante il master. Il fatto di avere compagni provenienti da tutta Italia e da varie parti del mondo (penso a Candice dagli Stati Uniti, Alexandra dalla Russia, Nuphap dalla Thailandia, Karin e Bin dalla Svizzera, Guadalupe dal Messico…) permette di confrontarsi e lavorare con persone con background completamente diversi. Un altro elemento importantissimo secondo me sono i brief: si lavora sempre a progetti “reali” definiti con le aziende partner. I ragazzi devono poi svilupparli in tempi brevi (proprio come nella realtà). Questo li abitua a essere veloci e reattivi – qualità fondamentali nel mondo di oggi.
All’interno del master tieni il corso Content Design e Strategy in collaborazione con Internazionale: di cosa si tratta? E come è cambiato nelle varie edizioni? La parte online del mio corso, che inizierà il 2 marzo 2020, è più teorica ed è dedicata all’analisi (benchmark, case study, etc…) dei social media. Poi a Roma, in 4 giorni, svilupperemo la strategia di comunicazione di Internazionale KIDS, il nuovo mensile dedicato ai lettori più giovani. Sarà un workshop molto intenso in cui incontreremo la redazione del magazine e realizzeremo per loro un piano digital completo (piattaforme, target, tone of voice, flussi editoriali, etc..) con relativa visual identity. Il master è in continua evoluzione e ogni anno alcuni moduli – o i loro contenuti – cambiano per essere sempre al passo con le istanze del design contemporaneo e del mondo digitale: nelle precedenti edizioni del mio corso, ad esempio, abbiamo lavorato alla digital strategy di “Internazionale a Ferrara”, il festival del giornalismo organizzato da Internazionale; alla creazione di un podcast e, nel 2016, di contenuti per Snapchat (ricordate la famosa copertina?).
Quanto, dal tuo punto di vista, i social media stanno influenzando i fenomeni relazionali? La prima cosa che facciamo (più o meno tutti) quando ci svegliamo è guardare Instagram. Non c’è altro da aggiungere…
A chi consiglieresti di iscriversi al master e perché? Relational Design è per persone curiose e un po’ temerarie. Penso alla primissima edizione del Master nel 2013: era un format tutto nuovo, mai fatto prima. Abbiamo avuto 15 iscritti. Si sono fidati.
La nuova edizione del Master Relational Design inizia il 1° ottobre 2019.
▶ Richiedi informazioni
Il modulo Content Design e Strategy è in programma per marzo 2020. ▶ Scopri di più
Lui è uno stampatore e incisore, molto legato alle tecniche di stampa tradizionali e impegnato nella loro salvaguardia; lei è una designer della comunicazione ed è Art Director dell’Officina Grafica di SUPER, la Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco. Insieme formano un blend perfetto di analogico e digitale: Marco Useli e Mariangela Savoiasono i docenti del workshop Milano Print Makers, in programma dall’11 al 15 dicembre 2019.
Marco, il workshop Milano Print Makers prende il nome dall’associazione di cui fai parte: di cosa si occupa e qual è il tuo ruolo al suo interno? Milano Printmakers è nata innanzitutto per salvaguardare e rilanciare l’incisione e la grafica d’arte attraverso progetti e sperimentazioni capaci di proiettarla nel contemporaneo e nel futuro. Milano Printmakers ha un bagaglio importante legato a due generazioni di stampatori ed editori, motivo per cui rappresenta un punto di riferimento per gli artisti interessati alla grafica d’arte e per chiunque cerchi un servizio professionale di questo tipo a Milano ma non solo. Inoltre abbiamo un forte interesse nella didattica, che coltiviamo con i corsi dedicati a diverse fasce d’età e diversi livelli di esperienza, e questo permette di avere sempre un certo fermento, di intrecciare relazioni, che è poi ciò che rende l’associazione un laboratorio culturale a artistico nel quale è possibile portare avanti il progetto delle residenze durante le quali gli artisti sono chiamati a sviluppare progetti che poi trovano ospitalità nei nostri spazi espositivi.
Come siete entrati in contatto con il mondo dell’editoria? (Mariangela) Come professionista ho un background editoriale: fin da subito, una volta finita l’università, ho lavorato in una casa editrice specializzata in architettura, la Libriadi Melfiin Basilicata. Questa esperienza ha influenzato definitivamente il mio approccio alla progettazione, tanto che ormai lavoro per “ritmi di lettura”. Ho avuto la fortuna di lavorare per una casa editrice relativamente piccola, cosa che mi ha permesso di imparare molto, non solo in ambito strettamente grafico. (Marco) Io provengo dal mondo della stampa tradizionale, nello specifico dalla calcografia, una forma di stampa legata storicamente alle origini dell’editoria e che si sviluppa di pari passo con essa, anche se mi sono appassionato e specializzato soprattutto nell’ambito dei libri d’artista, un prodotto editoriale che coniuga una forte componente artigianale con un progetto artistico e con un intento di comunicazione che va oltre il contenuto ed è molto attento alla forma, con tutte le implicazioni che questo comporta, sia dal punto di vista progettuale che tecnico e realizzativo.
Mariangela, nel 2016 hai fondato Orlo – bookzine di cultura pratica. Di che si tratta? Orlo è un progetto nato del 2016; l’idea era quella di parlare di territori al margine. Ho raccontato di alcune regioni del sud Italia e di alcuni esempi di co-progettazione dal basso. Mi interessava parlare in un certo senso di “errore” e per questo la Risograph mi sembrava la tecnica di stampa più adatta alla sua realizzazione. Ho pubblicato la bookzine anche in digitale, perché mi interessava mettere a confronto due tecniche così lontane. Per certi versi sembrano due prodotti editoriali diversi, pensati per esigenze diverse. Successivamente il progetto è andato avanti sul blog per un po’. Ho scritto diversi articoli inerenti il paesaggio e le migrazioni ed ho preferito pubblicarli online. Al momento sono al lavoro su un secondo numero cartaceo, su cui però preferisco non dare anticipazioni :-). Accanto a questo mi dedico alla legatoria artigianale e alla realizzazione di piccole edizioni, fanzine e taccuini.
Parlando di Risograph, il workshop che terrete a dicembre all’interno del Master Relational Design in partnership con SUPER ha a che fare proprio con questa tecnica. In cosa consiste? (Marco) La Risograph è innanzitutto un riproduttore di stampe a partire da file digitali o di piccole evoluzioni prodotte da scansioni della macchina stessa. Il processo di preparazione è molto simile a quello della più classica serigrafia, nella quale vengono preparati dei livelli da addizionare a registro per la realizzazione di un’immagine. Ciò che la caratterizza e che la rende piuttosto affascinante e divertente è il processo di produzione, molto più comodo e veloce rispetto ad altre tecniche di stampa. Ci si ritrova ad avere una piccola tipografia in poco meno di un metro cubo, con la possibilità di stampare su carte artigianali di varia grammatura con inchiostri ecologici, e matrici realizzate direttamente dalla macchina su carta giapponese. Diciamo che i limiti sono pochi e i vantaggi moltissimi.
(Mariangela) La Risograph è uno strumento per certi versi imprevedibile e per questo, a mio avviso, molto interessante. C’è sempre un margine di errore difficile da indovinare, ed è quello che la rende divertente. Nata come fotocopiatrice a basso costo, è uno strumento riscoperto dai creativi a partire dai primi anni del 2000. Attorno ad essa si è sviluppata una scena internazionale di grafici, illustratori ed editori DIY, affascinati dalla possibilità di stampare piccole edizioni o pezzi unici.
Come credete che il mondo dell’editoria, nello specifico quella creativa, stia cambiando col mutare delle tendenze – fortemente digitalizzate – della comunicazione? (Mariangela) È difficile dare una risposta precisa, perché gli scenari sono molteplici e si intrecciano inevitabilmente. Sicuramente il digitale ha cambiato le modalità di interagire con le informazioni e la loro disponibilità. Penso ai tanti esperimenti di libri interattivi, alcuni molto interessanti. All’altro estremo abbiamo il libro tradizionale; il digitale ne ha in qualche modo abbattuto i costi di produzione e facilitato la sua circolazione. Le tante piccole realtà indipendenti nascono anche grazie alle tecnologie più accessibili. (Marco) Il momento di transizione che investe l’intero sistema della comunicazione richiede sangue freddo e mente lucida. Le possibilità offerte dal digitale hanno portato molti entusiasti a credere che l’editoria su carta fosse destinata all’estinzione, o che tutto si sarebbe trasferito sugli schermi dei telefoni, ovviamente non è così. Troppa immaterialità fa venire voglia di tenere qualcosa tra le mani, di sfogliare le pagine. In un sistema così fluido, in equilibrio precario tra omologazione ed esperienze uniche ma troppo spesso disperse in un mare troppo vasto e troppo ricco, l’editoria creativa può approfittare di alcuni abbattimenti dei costi e di alcuni strumenti che permettono sperimentazioni accessibili sia per il pubblico che per i creatori. La risograph, ad esempio, è uno di questi eccezionali strumenti.
Potreste darci qualche altra anticipazione sul corso? (Mariangela) Durante il corso lavoreremo ad un concept per una piccola edizione da prodursi con la Risograph. Una volta individuato un format narrativo interessante, passeremo allo sviluppo del suo progetto grafico e alla realizzazione dei prototipi. Sarà molto divertente ma sarà necessario il lavoro di squadra. Lavoreremo insieme passando dal digitale all’analogico, curando i contenuti e la grafica della nostra pubblicazione. (Marco) L’obiettivo è quello di mettere gli studenti in condizione di creare un proprio prodotto di micro-editoria. Puntiamo a trasmettere gli elementi essenziali per poter lavorare in modo sicuro e in autonomia con una macchina che è diffusissima in tutto il mondo e con la quale, molto probabilmente, diversi studenti avranno modo di confrontarsi altre volte. Anche per questo lavoreremo su una commessa esterna e daremo molta importanza al lavoro di relazione indispensabile per raggiungere gli obiettivi. Il workshop Milano Print Makers si terrà alla SUPER – Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di Milano dall’11 al 15 dicembre 2019.
Per info e iscrizioni scrivi a info@relationaldesign.it
Innovazione sociale, rigenerazione urbana, sostenibilità: il design contemporaneo non può non tenere conto del proprio impatto sul futuro. Ne abbiamo discusso con Gaspare Caliri, co-founder di Kilowatt e docente del corso Design-as-a-Bricolage for Social Impact and Sustainability, in programma ad aprile 2020 all’interno della nuova edizione del Master Relational Design.
Semiologia, co-design e community organizing: dicci di più sul tuo background poliedrico. La mia prima passione è stata la semiotica – l’etnosemiotica in particolare – e la lettura di lettristi e situazionisti. Poi i processi creativi collettivi. Poi i modelli organizzativi. Ho capito alcune cose, credo abbastanza bene, grazie a queste passioni e grazie all’arte relazionale, al design dei servizi e soprattutto alle teorie della complessità: non esiste causa-effetto ma azione e retroazione; il nostro punto di vista incide sul sistema, lo modifica.
Sei co-fondatore di Kilowatt. Di che si tratta? Kilowatt è un’organizzazione complessa, tecnicamente un ibrido organizzativo, ma anche un incubatore di progetti nostri e di altri. Ci occupiamo di tante cose diverse: ad esempio abbiamo rigenerato a nostre spese le vecchie serre abbandonate del comune di Bologna, dove abbiamo un ristorante e una programmazione culturale, un orto condiviso, un coworking e una scuola dell’infanzia; siamo stati una startup innovativa cooperativa e ora non lo siamo più perché siamo diventati adulti; abbiamo un’agenzia di comunicazione e una di consulenza – tutte cose che potete vedere sul nostro sito – e tutte concorrono a un obiettivo di cambiamento di lungo periodo: dare al lavoro la qualità del tempo libero. Trovate un po’ di cose nel nostro bilancio d’impatto e in questo articolo.
Di quali altri progetti ti occupi? Sono stato tra i fondatori del Centro Bolognese di Etnosemiotica (CUBE) e ho condotto per molti anni Snark, un’associazione che si occupava di progetti di sensibilizzazione ai temi legati allo spazio pubblico (ora non c’è più, abbiamo fatto una festa funebre a inizio anno); ho anche fatto il critico musicale, per dodici anni più o meno. Ora (da cinque anni e passa, per la verità) c’è Kilowatt, che è il mondo che ci costruiamo ogni giorno cercando di valorizzare le nostre passioni, ricavandoci gli spazi di libertà di espressione di cui abbiamo bisogno. E uno di questi è proprio la dimensione della formazione, dell’educazione; un altro è la programmazione di concerti e laboratori sulle musiche non convenzionali, che curo alle Serre.
Dicci di più sulle Serre dei Giardini Margherita che hai citato prima: parlaci dello spazio e delle attività che si svolgono al suo interno. È un luogo dove i pubblici si mescolano, è al contempo un bar e ristorante (d’estate proiettato fortemente verso l’esterno), una grande aula studio coworking informale all’aperto (ovunque ci sono WiFi e prese elettriche), uno spazio per eventi (non solo nostri), un luogo di condivisione, cultura, formazione, oltre che il nostro spazio di lavoro. Ognuno ha un’occasione o un’opportunità per appropriarsene.
Così come il master si fonda principalmente sulle relazioni anche, il tuo corso vuole creare connessioni tra gli strumenti provenienti da diverse discipline. Puoi darci qualche anticipazione? Lavoriamo molto sul tema dell’impatto, ossia del cambiamento a lungo periodo legato principalmente ai diciassette obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Aiutiamo le aziende o altre organizzazioni a orientare la propria innovazione grazie a questa prospettiva. Allo stesso tempo, facciamo progetti sperimentali in prima persona. Uno di questi è GREAT, un progetto europeo finanziato dal fondo Life, che ha l’obiettivo di aumentare la consapevolezza di tutta la filiera, dal coltivatore al trasformatore, alla GDO al consumatore finale, dell’importanza di coltivare e consumare cibi cosiddetti “resilienti” (che contribuiscono a calmierare il riscaldamento globale e si adattano meglio al cambiamento che è già in atto). Design-as-a-bricolage vuol dire dotarsi degli strumenti più adeguati (sia che vengano dalle scienze sociali, sia dalla comunicazione, dal community organizing o dal design dei servizi) per gestire il corretto confezionamento di una domanda di progettazione, che è sempre anche domanda di immaginario per una comunità di riferimento. Lavoreremo proprio sulla dimensione del coinvolgimento e sul problem framing con i destinatari del progetto.
Il modulo “Design-as-a-Bricolage for Social Impact and Sustainability” si terrà ad aprile 2020 in collaborazione con Kilowatt e con Alce Nero: → SCOPRI DI PIÙ
Un passato da antropologa e una naturale inclinazione per le relazioni e le comunità – online e non: Anna Amalfi ha creato @ungiardinograndegrande, un “insta-giardino” digitale e collettivo che, attraverso immagini e brevi video, racconta gli spazi verdi e la loro cura mettendo in connessione utenti da tutto il mondo.
Il progetto sarà al centro del corso Social Gardening, che si terrà a novembre 2019 in collaborazione con SUPER, la Scuola di Arti Applicate del Castello Sforzesco.
Come sei approdata al Master Relational Design? E cosa ti ha lasciato, adesso che la tua esperienza si è conclusa? Nel 2013 mi sono imbattuta online nel MOOC Design1o1, un corso di design online creato da Stefano Mirti. Dopo aver seguito i corsi e partecipato attivamente alla community che si è creata intorno a questo straordinario esperimento, ho collaborato come istruttore – con un particolare interesse al community management – a Design1o1 Redux e ho deciso di frequentare il master per completare questo percorso. Guardando a ritroso, questa è stata la prima lezione del master, prima ancora che iniziasse: investire tempo ed energia nelle relazioni prima di tutto. Ogni modulo di Relational Design per me è stato come un puzzle, in cui dover trovare almeno una chiave comune (si lavora sempre in squadra!) per risolvere un gioco di relazioni sottili, che inizia proprio dalle persone con cui si lavora, poi va online, poi si prova a mettere su delle storie, dei processi e (se va bene) questi finiscono per trasformare anche le cose, le cose del mondo reale intendo. Questo continuo movimento online/offline è la parte più delicata e divertente della cosa: il gioco, il balletto. Almeno per me è stato così.
Il tuo progetto di tesi @ungiardinograndegrande coniuga la cura di uno spazio verde alla sua condivisione su una community digitale: com’è nata l’idea e come si è evoluta nel corso del tempo? L’idea è di Stefano Mirti, che mi ha chiesto di documentare ogni giorno, per 365 giorni, la nascita e lo sviluppo di un giardino siciliano. Ho scelto come strumento le storie di instagram perché le trovo molto divertenti. Casualmente ho un piccolissimo giardino sotto casa quindi ho iniziato da lì: osservando la vita del giardino, facendo ogni giorno una foto e aggiungendo grazie agli stickers alcune informazioni che rendessero conto del luogo dove mi trovo, del passare del tempo, del clima, delle mie emozioni anche o semplicemente di cose che mi passavano per la mente mentre sto in giardino o quando penso al giardino ma mi trovo in altri posti. Poi altre amiche di instagram, conosciute sempre grazie a Design1o1, hanno iniziato a fare lo stesso ed è venuto fuori questo insta-giardino collettivo, che ha un profilo dedicato e una squadra formidabile di giardiniere che ogni giorno selezionano le foto dei più bei giardini del mondo per il feed, mentre raccontano attraverso le storie di instagram il loro spazio verde: Italia, Croazia, Regno Unito, Svizzera, India, Russia, Germania, Australia… tutte queste #gardenstories vengono ripostate ogni giorno dal giardino, come fossero momenti diversi nella giornata di un unico giardino, grande grande, condiviso e diffuso, il cui fine ultimo è incoraggiare le persone a prendersi cura degli spazi verdi, dalla pianta sul balcone, al giardino di comunità del proprio quartiere. O crearne uno magari, non fosse altro che per avere buon materiale per le proprie #gardenstories!
In che modo le nuove tendenze della comunicazione digitale possono veicolare – o plasmare – pratiche ritenute tradizionali, come il giardinaggio? E qual è il loro impatto? Mamma mia che domanda difficile! In generale direi che la possibilità di raggiungere un numero impressionante di persone, senza limiti geografici, in tempo zero, con costi minimi e usando l’inglese come lingua franca, costituisce un discreto vantaggio evolutivo rispetto a chi faceva la stessa cosa anche soltanto dieci anni fa. Inoltre i costi bassi consentono di sperimentare senza troppi patemi d’animo, e anche questo lascia una certa libertà di azione. Con queste premesse diventa semplice trovare persone affini che abbiano voglia di collaborare, perché si sa che da soli non si arriva mai, ci si può anche annoiare parecchio strada facendo. Inoltre dai gruppi emerge un valore “X” che è superiore alla somma delle parti ed è quello che fa la differenza. E questo, nella mia esperienza, è stato fondamentale. Mi sembra che su Instagram una discreta parte dei contenuti che funzionano abbiano come fondamento un saper fare, che è il fondamento delle pratiche cosiddette tradizionali: la cucina, l’illustrazione, la ceramica… Per quanto riguarda il giardinaggio, i giardini sono per loro natura luoghi un po’ speciali, luoghi di relazioni, luoghi dell’immaginario: hanno le radici sulla terra ma poi vivono sempre anche da qualche altra parte, nei miti, negli affreschi, nella letteratura quindi, con la doverosa umiltà, forse ha senso pensare che possano vivere e prosperare anche su Instagram, che non è nient’altro che un medium, un canale, quello che usiamo oggi. In tre mesi, senza spendere un centesimo, abbiamo ottenuto la fiducia di diecimila persone che ci seguono, ogni giorno una media di tre-quattromila persone regala un cuoricino ai nostri post, il 10% di queste segue quotidianamente le nostre storie. Ogni volta che qualcuno ci regala la propria garden story sappiamo che esiste una persona in più al mondo che vuole contribuire attivamente a diffondere l’osservazione, l’amore e la cura per gli spazi verdi e per il pianeta. Adesso facciamo un salto indietro nel tempo e vi racconto una storia. Vita Sackville West, poetessa, giardiniera, nota anche per la relazione con Virginia Woolf, per quindici anni a metà del ‘900 ha tenuto una rubrica settimanale di giardinaggio sull’Observer in cui raccontava del suo giardino nella tenuta di Sissinghurst. Offriva consigli e scambiava semi con i lettori, ma soprattutto creava e intratteneva relazioni umane a partire da quello che amava: il suo giardino. E i lettori poi diventavano visitatori paganti nel giardino di Sissingursth (operazione abbastanza inconsueta al tempo), dove magari andavano in cerca di ispirazione per i propri giardini, e così Vita riusciva a mantenere il giardino e contemporaneamente a diffondere l’amore per questa pratica tradizionale così importante per il benessere della terra, degli uomini, dell’ecosistema. Adesso provate un po’ a trovare le differenze 🙂
Puoi darci qualche anticipazione sul modulo Social Gardening, che si terrà a novembre 2019 in collaborazione con SUPER, la Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco? Social Gardening è un esperimento: curare un giardino e far crescere una community, nello stesso modo e nello stesso tempo. Con le due insegnanti SUPER (in tutti i sensi) Cecilia Marra – illustratrice botanica e insegnante – e Francesca Dainotto – landscape designer ed esperta in giardini collettivi – proveremo a dare una risposta pratica: dal momento che ci sembra che giardini e communities seguano dinamiche simili, dall’attenzione alla pratica costante, dallo spazio necessario alla cura fino ad un istinto che non va mai trascurato, seguiremo gli stessi passi per far crescere con i nuovi studenti una community e i bei giardini dentro della scuola SUPER. Sarà un corso ibrido in cui si incontrano e si combinano le sapienze tradizionali del giardinaggio e delle pratiche di comunità con i linguaggi tecnici dei nuovi media: useremo la terra, i semi, le metafore, l’acquarello, alcune tecniche di progettazione, gli stickers, i video, le app e andremo in giro per Milano per conoscere dei giardini molto speciali e le persone che ci lavorano, poi racconteremo tutto sui social media, sarà una storia collettiva che, nelle nostre intenzioni almeno, aiuterà a saper stare bene e a proprio agio sulla terra e in comunità, online e offline.